«Libero fischio in libero Stato». Nessuno come Sandro Pertini ha mai trovato una sintesi più efficace per spiegare il rapporto tra il fischio e la democrazia. Eppure, l'allora Presidente parlava dopo una contestazione molto dolorosa e forse ingiusta, contro tutti i vertici dello Stato ai funerali delle vittime della strage di Bologna: «Libero fischio in libero Stato». Nessuno, a torto o a ragione, ha mai potuto fischiare Stalin, Hitler, Mao, Mussolini, Castro o Pinochet senza finire nei guai. Nessuno. Per questo il fischio, più sobrio del pernacchio, più vispo del mugugno, più essenziale dell'intemerata, è il sale della democrazia.
Ed è un peccato che Silvio Berlusconi non lo apprezzi. Meglio: che non lo apprezzi oggi, da momentaneo bersaglio, dopo averlo apprezzato per anni quando era rivolto ai suoi avversari.
Grazie a Dio tutti, nella nostra democrazia, sono stati fischiati.
Tutti. Lo sono stati Palmiro Togliatti e i comunisti quando nel 1948 Fausto Gullo se la pigliava con gli elettori dc bollandoli come uno stuolo di «suore di clausura, preti, beghine» e padre Riccardo Lombardi e i «crociati della bontà» quando mettevano in giro la voce che Giacomo Mancini era morto colpito da un ictus punitivo di Dio. Lo sono stati Amintore Fanfani a un rissoso congresso della Dc («Fischiate, fischiate: se avessi avuto paura dei fischi nel '45, nel '46 e nel '48 voi non sareste qui!») ed Enrico Berlinguer a un fastoso congresso socialista, quando Craxi liquidò le accuse di scarso bon ton verso l'ospite dicendo: «Se sapessi fischiare, avrei fischiato anch'io».
E prima o dopo sono stati fischiati o contestati Francesco Cossiga e lo stesso Bettino, Giovanni Leone e Fernando Tambroni e giù giù a decine fino ai protagonisti della stagione ulivista. Da Luigi Berlinguer a Massimo D'Alema, da Rosy Bindi a Rosetta Russo Jervolino. Tutti. A partire da Oscar Luigi Scalfaro.
Ma ve lo ricordate? Non c'era paese d'Italia in cui l'allora presidente non trovasse un comitato d'accoglienza. E beccava fischi a Casale Monferrato e a Brescia, a Gorizia e a Milano e perfino a Novara, la sua città. Una ragazzina delegata dagli altri studenti a leggere il messaggio di benvenuto alla Terza Università di Roma, Francesca Marasco, arrivò a cambiare il testo concordato e gli chiese di accettare di essere un cittadino come gli altri e dunque, per «assistere all'accertamento della verità», di dare le dimissioni.
Il riferimento era così esplicito che Il Giornale berlusconiano titolò plaudente: «Studentessa accusa il capo dello Stato di avere bloccato le indagini sui fondi Sisde». Un'eroina divenne, in pochi istanti. Al punto di essere premiata dal Polo, alle successive elezioni, con l'elezione a consigliere regionale del Lazio.
Né fu meno entusiasta la reazione, nel febbraio '97, alla contestazione organizzata da alcuni gruppi di An contro Romano Prodi il giorno dell'inaugurazione dei Mondiali di sci al Sestriere. Titolone: «Prodi fischiato in mondovisione». Commento: «Solo un cuor contento come Prodi poteva pensare che non sarebbe arrivato. L'uragano di fischi e di pernacchi, intendo. Eppure era lì, sospeso a mezz'aria, minaccioso. Aspettava solo l'occasione propizia per scatenarsi, travolgere, annichilire il presidente del Consiglio. Il quale, diciamoci la verità, se l'è andata a cercare. Qualcuno deve avergli suggerito che in America si usa così. Il capo deve mostrarsi, deve essere visibile e passeggiare di qua e di là...». Conclusione: «Dio che figura, ora si dirà. Già, ma fa una brutta figura l'Italia che fischia e sbeffeggia il suo capo di governo o un capo di governo che si merita i fischi e i pernacchi?».
Tutto normale, pareva. Non succedono forse queste cose in tutti i Paesi normali? E infatti così è: la Regina Elisabetta si è presa i fischi a Berlino, Robert Hue alla «sua» festa dell' Humanité , il segretario di Stato Colin Powell al vertice di Johannesburg, Ariel Sharon all'ultimo congresso del Likud, José Aznar a La Coruna dopo il disastro ecologico della «Prestige» e perfino Paolo VI venne un giorno sonoramente fischiato, nel 1964, quando, in visita alla Porta di Mandelbaum che allora segnava il confine tra Giordania e Israele, osò nominare Papa Pacelli.
Per non parlare delle torte in faccia al ministro delle Finanze svedese Bosse Ringholm, al presidente del Fondo monetario internazionale Michel Camdessus, al presidente della Commissione europea Jacques Delors o al ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer. O delle uova lanciate a un sacco di re, ministri, statisti...
Compreso, a Venezia, Giulio Andreotti che disse: «Boh... Dicono faccian bene alla pelle». Era, allora, capo del governo. Per la settima volta. Ma non si sognò neppure di dire la seguente frase: «Ho dato incarico alla presidenza del Consiglio in unione con l'Avvocatura dello Stato di perseguire tutti coloro che recassero offesa alla presidenza del Consiglio. Lo farò con determinazione». Solo Berlusconi, l'ha detta. Poche settimane fa. Aggiungendo che certe contestazioni «non erano mai successe in altri tempi» (sic) e spiegando che non è così permaloso per se stesso ma «per il ruolo». Una scelta della quale hanno già fatto le spese il giovanotto che al processo Sme gli aveva gridato «buffone» (o «puffone?»), i girotondini che a Bari lo avevano accolto coi palloncini e cori strafottenti e l'altro ieri un isolato contestatore che ad Olbia aveva issato un cartello di 30 centimetri per 50 con scritto: «La legge è uguale per tutti. Fatti processare», subito bloccato e identificato dalla polizia.
Per carità: possono avere tutti torto marcio. E certo simpatico non è, girare sotto la minaccia di fischi e pernacchi. Ma non è questo il punto: sono davvero diverse queste contestazioni da quelle applaudite contro Scalfaro (compresi i riferimenti giudiziari) o Prodi? E non è forse additata come un modello di democrazia l'Inghilterra anche per quel diritto dato a tutti di mettersi in piedi su una cassetta di frutta ad Hyde Park Corner sputando qualsiasi parola anche contro la regina? In ogni caso: basta che ci mettiamo d'accordo.
«In democrazia un cittadino deve avere il diritto di dire le sciocchezze più grandi che crede», sostiene per esempio Roberto Castelli, azzannando a nome del governo italiano chi vuole l'adozione d'una legge europea più severa contro chi raglia sparate razziste. Insomma, fin che non c'è dell'altro, le parole sono solo parole. Domanda: vale per tutti o solo per chi parla di Bingo Bongo e «sporchi negri»?
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