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Domenica 13 Luglio 2003 LA STAMPA Barbara SPINELLI
A che cosa sono servite le bugie
SEMBRAVA che Saddam Hussein costituisse un pericolo imminente per l’America e il mondo: possedeva armi chimiche e biologiche, dava man forte al terrorismo di Al Qaeda. E si preparava a costruire la sua prima atomica, grazie all’uranio comprato in Niger. Prendendo la parola alla Camera dei Comuni, Tony Blair giunse sino a dire che Baghdad poteva schierare armi di distruzione di massa in quarantacinque minuti. Ancora non è chiaro se Bush e Blair abbiano mentito in piena coscienza, oppure se abbiano mal capito i rapporti dei servizi segreti, oppure se la colpa sia degli stessi servizi.
 
Il presidente Usa sembra propendere per quest’ultima ipotesi, che è per lui la più comoda: non sono io ad aver inventato la storia dell’uranio comprato in Niger - ha detto grosso modo durante la visita in Africa - è stata la Cia ad avallare quel che ho detto al popolo nel discorso sullo Stato dell’Unione del 28 gennaio. La Cia subito si è allineata: poco dopo l’intervento presidenziale, il capo della Cia George Tenet ammetteva che la disattenzione era ascrivibile ai propri servizi. Uno scenario abbastanza simile si svolge da settimane in Inghilterra: anche qui Blair si difende scaricando le colpe su altri, senza esser molto creduto né dall’opinione pubblica, né dal Parlamento, né dalla stampa e in particolar modo dalla Bbc.
 
Sono singolari comportamenti, per due uomini politici che si erano tanto sforzati di apparire graniticamente sicuri di sé, pronti a partire nelle più difficili guerre senza badare agli alleati e alle leggi internazionali. Sembravano uomini tutti d'un pezzo, e forse proprio per questo oggi appaiono così pieni di contraddizioni, titubanti, vulnerabili, del tutto incapaci di fare quello che dovrebbe esser normale per un dirigente: assumersi le proprie responsabilità e non scaricarle sui dipendenti; governare senza ricorrere all’arma dei falsi allarmi.
 
Sono vulnerabili al punto di ammettere implicitamente che la guerra in Iraq non aveva la motivazione che era stata solennemente data ai Parlamenti e ai popoli, ma che ne aveva un’altra che venne tenuta nascosta e che ancor oggi lo è. Sono vulnerabili al punto di riconoscere che non è cosa semplice, edificare la pace in Iraq dopo aver vinto la guerra: i soldati americani uccisi da quando Bush ha dichiarato finito il conflitto sono più di trenta, i feriti un centinaio, gli incidenti violenti sono una ventina ogni giorno. «Abbiamo un problema di sicurezza», ha confessato il Presidente giovedì. La guerra non è finita ma continua, in Iraq. Bush era partito come un politico che non aveva bisogno di nessuno - né della legittimità internazionale né dei vecchi alleati, né dell’Onu né della Nato - e alcuni suoi consiglieri già fantasticavano la riedizione dell’impero romano. Ora Washington si rivolge alla Nato e a quell’Europa che aveva definito vecchia e superflua, perché lo soccorrano nel Golfo. Vuol tuttora dividere gli europei, ma poi invoca il loro aiuto.
 
Francesi, tedeschi e canadesi hanno per ora risposto negativamente: non andranno nel Golfo, se il ruolo legittimatore dell’Onu non sarà completamente riconosciuto e riabilitato dalla Casa Bianca. Gli uomini tutti d’un pezzo si sgretolano più facilmente del previsto, quasi fossero fatti di gesso: è una delle lezioni del conflitto Ovest-Ovest, scoppiato attorno alla questione irachena. Fanno pensare a quel maggiordomo che in un film di Buñuel proferiva frasi assolutamente sconce sulle donne, che veniva rimproverato dal padrone per la rozza sicumera del linguaggio, e che si rimangiava così quel che aveva detto, pur di non addossarsene la responsabilità: «Non sono io ad averlo detto: è quel mio amico...». Il film di Buñuel si chiama, significativamente, «Quell’Oscuro Oggetto del Desiderio». Il protagonista gira il mondo con un pesante sacco di tela sulle spalle. E’ il peso del mondo che porta, ma nessuno saprà mai quel che v’è dentro. Così per l’Iraq: nessuno può dire quando sapremo tutte le verità su una guerra che rese tanto popolari i suoi iniziatori, e che oggi li fa apparire tanto in difficoltà. Nessuno a Washington vuol dire quale fosse veramente l’Oscuro Oggetto del proprio Desiderio bellico.
 
Non per questo hanno ragione quei pacifisti che giunsero sino a tacere i crimini di Saddam. E’ vero: le armi di distruzione di massa non sono state scoperte in Iraq, ma in cambio sono state trovate le fosse di distruzione di massa. Saddam era un despota con tendenze totalitarie: negli Anni Ottanta non esitò a impiegare le armi biologiche contro i villaggi curdi a Nord - fu confortato in questo dalla complicità occidentale e statunitense, conviene ricordarlo - e negli Anni Novanta fece strage delle popolazioni sciite a Sud (con il complice silenzio Usa, ancora una volta). Ma non per questo Washington e Londra vollero così intensamente una guerra, tra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2003: anche se non si capisce come mai non difesero questa argomentazione (il pericolo totalitario di Saddam), anziché impantanarsi alle Nazioni Unite nelle poco probanti discussioni attorno alle armi. Non pochi osservatori, e tra questi Sergio Veira de Mello, rappresentante Onu in Iraq, sostengono che la guerra, se proprio si voleva fare, si sarebbe dovuta motivare con i massacri e le catene imposte al popolo iracheno, e non con una presunta pericolosità bellica per l’America e il mondo.
 
I danni di questa politica fondata sulla menzogna sono ingenti per Washington come per Londra: un’altra operazione simile i governi americani non possono più compierla, e questo mina il prestigio e la forza che essi volevano dimostrare, dopo l’attentato dell’11 settembre, attraverso due successive guerre in Afghanistan e Iraq. E non meno irrealizzabili saranno futuri interventi umanitari in difesa dei diritti dell’uomo. Se Bush e Blair hanno mascherato con tanta cautela fraudolenta quest’ultima motivazione, vuol dire che le guerre esplicitamente tese a creare le basi di una democrazia sono invise e non vendibili comunque.
 
D’altronde non si sa quale democrazia voglia costruire Bush in Iraq, e per questo forse non è stata la democrazia il motivo della guerra. Il segretario alla Difesa Rumsfeld ha già detto che non accetterà un «governo islamico neppure se la popolazione lo volesse», e il governatore Bremer comincia solo ora ad affidare qualche carica governativa agli iracheni. Di tutto questo valeva la pena discutere apertamente tra dirigenti americani e vecchia Europa, evitando il clima velenoso che si è creato nelle relazioni atlantiche. Valeva la pena discutere seriamente attorno all'utilità o non utilità delle guerre di liberazione democratica, invece di ingolfarsi in oceani di bugie attorno a quello che potrebbe essere l’ennesimo bluff di Saddam: il bluff di un regime che vuol apparire mortalmente pericoloso per il mondo quando ha smesso di esserlo già da un decennio, grazie alla strategia occidentale di contenimento.
 
Può darsi che il motivo vero non sia stato uno solo. Si voleva lanciare un segnale al mondo arabo, perché cessasse di usare il nemico israeliano pur di tenere in vita regimi non democratici e corrotti. Si voleva liberare l’Iraq e insediarvi una nuova base alleata, perché l’Occidente non fosse dipendente dalla sola Arabia Saudita e dalle sue derive integraliste. Nello stesso contesto, si voleva infine metter le mani sul petrolio iracheno. Se la Casa Bianca avesse discusso attorno a cose vere con l’Europa e non attorno a rapporti sulle armi truccati in maniera tale da creare nel mondo il massimo di paura, si sarebbe potuto forse trovare una via d’uscita. Invece il risultato è pessimo.
 
La democrazia dei paesi arabi è ancora più lontana, l’antiamericanismo è in crescita, e i passi avanti in Medio Oriente non si sa bene a cosa ascriverli: se ai successi o ai rovesci di Bush in Iraq. Nelle ultime elezioni legislative, il 5 luglio, i liberali del Kuwait sono stati praticamente estromessi, mantenendo solo tre seggi sugli otto che avevano. Gli altri 47 seggi sono andati a conservatori e integralisti islamici, che si rafforzano: non è un esito incoraggiante, per un paese favorevole alla guerra Usa.
 
Il guaio è che tutte queste contraddizioni e questi fallimenti hanno effetti sull’Europa oltre che sull’America, senza che l’Europa sia ancora in grado di escogitare una sua strategia convincente. Washington adesso deve vincere la sua battaglia, deve poter contribuire alla stabilizzazione democratica dell’Iraq, perché in pericolo non è solo la sua sicurezza ma anche quella dell’Europa, perché turbati non sono solo i suoi rapporti con l’Islam ma anche i nostri. L’oscuro suo oggetto dei desideri deve poter divenire una verità finalmente visibile e condivisa, se si vuole che la guerra fredda tra Occidentali non ammorbi per lungo tempo ancora le relazioni fra i popoli e gli Stati del mondo.

 

 
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