ROMA - Anche stavolta lo
strappo verrà ricucito. Ma se è vero che la strada della crisi era
impraticabile, se è vero che nel centrodestra non esistono alternative agli
attuali equilibri, è impossibile immaginare che un governo in preda a
quotidiane fibrillazioni possa affrontare e superare indenne il tornante d’autunno.
Il centrodestra vive ogni giorno di emergenze, e ieri andava trovato rapidamente
un compromesso per evitare che lo scontro tra l’Udc e il ministro della
Giustizia sulle rogatorie internazionali precipitasse in Parlamento. Era ovvio
che non potesse finire in quel modo, così com’era ovvio che dovesse
intervenire Berlusconi, la cui principale preoccupazione ieri era evitare «un
danno all’immagine di Castelli»: «I centristi non possono chiedere che perda
la faccia. E non sarà così». Al Senato toccherà a Fini ricomporre la
frattura, sarà lui oggi a sottolineare che il Guardasigilli non aveva bloccato
ma solo sospeso le richieste avanzate dal pool di Milano per l’inchiesta su
Mediaset, spetterà al vice premier spiegare che il governo «nella sua
collegialità» ha interpretato le norme sul Lodo Maccanico, e sulla base dell’interpretazione
darà il via libera alle rogatorie. Così il ministro sarà «salvo» e l’Udc
avrà centrato l’obiettivo. A quel punto il voto sulla mozione di sfiducia
chiesto dalle opposizioni non servirà. In fondo avranno vinto anche loro.
Perché nel centro-destra
rimarranno evidenti i segni dello sbrego. Furibondo con Follini, nel pomeriggio
il premier era stato tentato di porre fine allo scontro con un comunicato in cui
avrebbe difeso l’operato di Castelli, garantendo al tempo stesso lo sblocco
delle rogatorie. Berlusconi aveva anche chiamato il ministro, al quale aveva
espresso la solidarietà contro «quegli alleati che hanno ereditato i vizi
della vecchia Dc»: «Ma bisogna rompere l’assedio. E sarò io a farlo, sarò
io a chiedere di far partire le rogatorie. Così la smetteranno di cercare
pretesti tecnici per montarci su un caso politico».
La tensione si era fatta troppo
alta. Casini aveva avvertito che il Guardasigilli non avrebbe potuto chiedere
alle Camere un’interpretazione della legge, impedendo così a Castelli di
sfruttare quella via di fuga. «Quando una maggioranza si trova d’accordo sul
merito e si divide sul metodo, significa che si sono esaurite le ragioni dello
stare insieme», sospirava un autorevole esponente del Polo: «Siamo in un
vicolo cieco. Cosa accadrà la prossima volta, se una forza della coalizione
vorrà far valere le proprie ragioni? Gli strumenti sono stati tutti adoperati.
Ne rimane uno solo: la crisi». L’Udc aveva appena rilanciato l’ultimatum al
Guardasigilli, segno che il partito di Follini voleva «piegare la Lega» e al
tempo stesso avvisare il Cavaliere che «d’ora in poi dovrà instaurare un
rapporto corretto con gli alleati».
Berlusconi decideva di rimanere
nell’ombra mentre a palazzo Chigi Fini, Letta, Giovanardi e Castelli trovavano
il punto di mediazione. In verità quel punto di mediazione era già stato in
parte individuato nei giorni scorsi, e ciò fa capire che nessuno aveva
intenzione di cedere all’altro, quasi che tutti gli attori volessero recitare
fino in fondo la propria parte, nell’attesa di un segnale del regista. Il
segnale arrivava, Berlusconi decretava la fine «di una vicenda che si poteva
risolvere per telefono, invece di farla montare sui media». Ma se il premier si
lamenta per «lo spettacolo distorto che è stato offerto del governo», le
responsabilità ricadono in primo luogo proprio su chi è alla guida del
governo. Certo i centristi hanno approfittato del «caso» per calcare la mano e
mettere all’angolo Bossi, ma nel Palazzo molti s’interrogano per quale
motivo il caso è esploso. Ieri, durante l’ufficio politico l’Udc, il
ministro Giovanardi aveva invitato Follini a non accanirsi contro Castelli:
«Perché lo sappiamo tutti che era Berlusconi a voler bloccare le rogatorie». |