Mentre il pentolone del
centro-destra bolliva sopra il fuoco acceso dal ministro leghista Roberto
Castelli, il vice premier Gianfranco Fini si è lasciato andare a una previsione
azzardata.
Proprio lui, di solito così
cauto, ha detto: "Se la Lega decidesse di abbandonare la maggioranza,
nessuno le correrebbe dietro per pregarla di tornare". Perché Fini avrebbe
fatto meglio a tacere? Per una serie di ragioni che adesso elencherò. A
cominciare da quella meno importante, anche se riguarda i numeri della Casa
delle Libertà in Parlamento.
Alla Camera, una defezione dei
leghisti non avrebbe nessun effetto, poiché Silvio Berlusconi conserverebbe
comunque una maggioranza robusta. Al Senato, invece, il governo si troverebbe
sul filo del rasoio. Niente di drammatico, s´intende. La falla eventuale
potrebbe essere tamponata con facilità. Tuttavia il fastidio resterebbe. E
sarebbe una magra consolazione il pensiero che, comunque, la Lega fuggitiva è
in costante perdita di consenso elettorale. Per restare ai numeri, nel 1996
Umberto Bossi aveva portato a casa 3 milioni e 776 mila voti, pari al 10,1 per
cento. Cinque anni dopo, nel 2001, si era già ristretto a 1 milione e 456 mila
suffragi, pari al 3,9. Lasciando per strada più di due milioni di elettori.
Ma ci sono motivi ben più
forti per rincorrere una Lega che abbia deciso di mollare Berlusconi, Fini e il
resto della compagnia. Il primo è che "la Lega non è soltanto il collante
elettorale della coalizione di centro-destra, ma ne è la ragione
ideologica". Chi lo dice? Lo dice, anzi lo scrive su ´Libero´ di Vittorio
Feltri (26 luglio) un deputato di Forza Italia, l´avvocato Carlo Taormina. So
che Taormina non piace a molti. Però non gli si può negare un buon intuito
politico. E allora ascoltiamolo.
Sbarazzarsi della Lega, scrive
Taormina, produrrebbe nel centro-destra ben più di un "effetto
domino" dalle conseguenze imprevedibili per Berlusconi & C. Infatti
farebbe venir meno "l´elemento unificatore che cementa questa maggioranza,
ossia la logica federalista da cui dipende il vero rinnovamento dello Stato e
della politica". Dunque, con l´uscita della Lega "il crollo della
maggioranza sarebbe senza ritorno, perché la gente vuole il federalismo".
Vi sembra bizzarra l´opinione di Taormina? A me no. E neppure, immagino, a quei
dirigenti dei Ds che da anni analizzano con serietà il leghismo visto nel
contesto dell´Italia del nord. Penso, per esempio, a Iginio Ariemma e a
Pierangelo Ferrari.
Non chiudiamo gli occhi davanti
a una verità. Da Parma in su, anche tanti elettori dell´Ulivo vogliono il
federalismo. Non quello da baraccone di Bossi, ma neppure quello tisicuzzo
votato dal governo di centro-sinistra, un attimo prima del crollo. Andate in
Veneto e interrogate politici, imprenditori e intellettuali ulivisti. Vi diranno
tutti che, anche per contenere la Lega, bisogna dare un segnale fortissimo di
federalismo. E vi sentirete chiedere: perché il Veneto non può diventare
subito una regione a statuto speciale, come le due che lo circondano, il Friuli
Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige? Questa è una realtà indiscutibile. E
lo scrivo senza nessuna simpatia per Bossi, che mi ha pure trascinato in
tribunale.
Il secondo motivo è che Bossi
e Berlusconi si assomigliano, più di quanto il secondo voglia ammettere. Il
profilo vero del Cavaliere lo conosciamo. È un lombardo di quelli convinti
della propria superiorità etnica e che ripetono sempre "ghe pensi
mi!", ci penso io, lasciate fare a me! Le sue pulsioni nascoste sono le
stesse del Bossi. Anche lui ha Roma sulle scatole. Non arriva a urlare
"Roma ladrona!" soltanto per ovvii motivi di convenienza. Del
Mezzogiorno non potrebbe fregargliene di meno, e il ponte sullo Stretto è
appena uno spot televisivo in onore di se stesso, il magnanimo Cavaliere
nordista.
Come immaginare che questo
Berlusconi non rincorra un Bossi che voglia lasciarlo solo? Anche perché, e
siamo al terzo motivo, il Cavaliere teme una Lega ridiventata del tutto mina
vagante. Non ha ancora smaltito lo choc del ribaltone 1994. E nelle sue notti
insonni vede i manifesti e i cartelli di un tempo: Berlusconi mafioso, piduista,
votato da Totò Riina. Sbaglia il mio amico Emilio Giannelli, grande
vignettista: non è Berlusconi che tiene al guinzaglio Bossi, ma l´esatto
contrario.
E per dirla tutta, se il
ministro Castelli piange dopo la sua ritirata in Senato, Bossi se la ride.
L´Umberto è un furbone spregiudicato. Mentre Silvio oggi annaspa in una bassa
marea esistenziale. Leggete l´epitaffio scritto da Giuliano Ferrara sul
´Foglio´ di martedì 29 luglio: il Cav non è mai stato "così poco
lucido", "lavora attivamente per far godere i suoi avversari",
"lo fa peccando in atti e omissioni, in una corsa mai così veloce e
solitaria contro il muro dell´incomprensione generale".
La sinistra dovrebbe studiarla
con cura questa faccenda del guinzaglio di Bossi al collo del Berlusca. Ma la
sinistra, forse, non studia più. Sapete qual è stato il libro più venduto
nella mega-festa romana dell´Unità? ´Tutte le barzellette su Totti´, 150
copie ogni sera. |