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REPUBBLICA - 2 Mar 2001
Bangkok, il venditore di sogni -
di SEBASTIANO MESSINA
BANGKOK Forse non è l'unico ad aver avvolto in un sogno dolce e incantato tanti thailandesi, ma di sicuro è il primo ad esserci riuscito senza essere una divinità e senza usare l'oppio. A 51 anni, Thaksin Shinawatra è l'uomo più ricco, potente, temuto, ammirato e invidiato di Bangkok. È il re senza corona dei telefonini, delle fibre ottiche, dei satelliti e delle tv: provate a mandare un bit dalle rive del Chao Phraya senza passare per i cavi, le reti o le onde di una delle sue 60 compagnie, e scoprirete che non è difficile: è impossibile.
Ma "doctor Thaksin" è anche il nuovo imperatore sorridente della politica thailandese, l'uomo che ha stregato, sedotto, abbagliato un intero paese, felice di consegnare la maggioranza assoluta del Parlamento al suo solo partito, "Thai Rak Thai", "I thailandesi amano i thailandesi".
Ebbene, proprio ora che è arrivato sulla cima della montagna del successo, proprio ora che solo il Buddha e sua maestà il re sono più amati e venerati di lui in quest'angolo d'Oriente che una volta era il magico Siam, proprio ora "doctor Thaksin" ha sentito l'inquietante tictac di una bomba giudiziaria.
Una bomba giudiziaria che tra una settimana, tra un mese o tra un anno — nessuno lo sa — potrebbe polverizzare in un secondo il suo sogno imperiale.
Il detonatore di questa bomba ha il peso e la potenza di un atto d’accusa di settemila pagine, tutte su quello che sembrava un innocente peccato veniale di uno dei venti uomini più ricchi del pianeta: la decisione di intestare azioni per trenta miliardi di lire al suo maggiordomo, al suo autista e alla sua guardia del corpo.
Un giochetto da niente, che però gli ha procurato prima l’in¬criminazione da parte della Commissione anticorruzione — composta da magistrati, giuristi ed ex ufficiali di polizia — e poi il deferimento alla Corte Co¬stituzionale, che ora ha il di¬to sul pulsante del detonatore: se i giudici confermeranno il verdetto della commissione, Thaksin non se la caverà con una multa: la pena, automatica e senza condizionale, sarà l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
Dimissioni immediate, fine della partita, addio al potere.
Eppure, mentre i giudici appendevano solennemente la loro spada di Damocle sulla testa del nuovo premier, lui ha fatto finta di non accorgersene. Ha definito l’inchiesta "una manovra politica", e solo ieri, nell’ultimo giorno utile, ha inviato alla Corte la sua autodifesa scritta. Ora non gli resta che attendere.
Thaksin aspetterà i giudici, ma anche i giudici aspetteranno Thaksin: cercheranno cioè di capire se davvero la Thailandia ha trovato il suo uomo del miracolo o solo un incantatore più bravo degli altri che deluderà presto il paese. Nel primo caso, lo lasceranno al suo posto. Nel secondo, gli sfileranno il tappeto sotto i piedi.
Per il momento, la luna di miele continua. La gente sa bene di non trovarsi di fronte a un uomo venuto dal cielo, ricorda di aver già visto quell’uomo inchinarsi altre volte davanti al re.
Perché Thaksin non è affatto un Ufo della politica, anzi: sono passati trent’anni, dal giorno in cui lui mise piede per la prima volta in un palazzo del governo, come consigliere di un ministro. Da allora è stato ministro degli Esteri, è stato vicepremier, ha guidato un partito, il Phalang Dharma. Un giorno, però, s’è fatto da parte. Si è chiesto cosa potesse fare per fare il salto da comprimario a solista, e ha deciso di fondare un partito nuovo di zecca.
Un partito rivoluzionario già nel nome così poco ideologico.
Fondato in una una data rivoluzionaria: il 14 luglio, l’anniversario della presa della Bastiglia. Poi ha commissionato il primo di una lunga serie di sondaggi, e ha comprato l’unica tv privata del paese.
Quando ha capito cosa voleva la Thailandia, ha lanciato il prodotto Thaksin, mettendo in vetrina la sua storia di selfmademan: quella di un umile figlio di contadini nato in una capanna del Nord che prima fa carriera nella polizia e poi dà le dimissioni e mette a frutto il gene degli affari dei suoi cromosomi cinesi, invadendo con i suoi computer le stazioni della polizia e aggiudicandosi una dietro l’altra la prima licenza per la tv via cavo, la prima licenza per il teledrin, la prima licenza per i cellulari e la prima rampa di lancio per un satellite privato, diventando in meno di dieci anni l’uomo più ricco della Thailandia.
La sua mossa decisiva è stata però la seduzione di un intero paese, con un programma co¬pilato per conquistare non il cervello dei thailandesi ma il loro cuore, l’organo vitale più vici¬no al portafogli. Ha promesso un finanziamento straordina¬rio di 50 milioni di lire a ognuno dei 73 mila villaggi del paese, ha garantito a tutti visite senza li¬miti nelle cliniche private con un ticket di 1500 lire, ha assicurato ai contadini il congelamento dei loro debiti per tre anni, ha lanciato l’idea di una soluzione-lampo per risolvere il problema dei debiti inesigibili, causa numero uno della paralisi del sistema bancario. E, naturalmente, ha giurato: meno tasse per tutti.
Questo era il sogno che Thaksin prometteva, offrendo se stesso co¬me pegno, a un popolo stanco di annaspare nella palude della stagnazione. "Cosa ci costa fare la prova?" si sono detti i thailandesi. E l’hanno coperto, inondato, sommerso, bombardato di voti.
"A Bangkok speravamo di ottenere 29 seggi: beh, ne abbiamo contati 39" racconta, ancora stupito, Pansak Vinyaratn, un ex leader del ‘68 che è stato direttore dell’Asia Times e consulente della Rotschild Bank, prima di diventare il consigliere politico di Thaksin. "Abbiamo avuto, da soli, la maggioranza assoluta dei seggi: non era mai successo. La stampa stupida dice: populisti. La verità è che la gente ci ha votato perchè ha creduto nel nostro programma, ecco perché".
E la gente ci crede ancora, nonostante quel fastidioso tictac. Thaksin sa di essere in gara contro il tempo, mentre la spada della Corte oscilla sulla sua testa, ed è partito sgommando. Chi invece non ci crede — a parte, s’intende, l’opposizione — è Chalerm Yubamrung, un capi¬tano di polizia che è il numero due di "Nuova Aspirazione", il principale alleato del partito di Thaksin. Gettando un secchio d’acqua gelata in faccia ai thailandesi, il ruvido Chalerm ha spiegato senza troppi eufemismi che le tre promesse più impegnative sono state preziose per rastrellare voti ma non potranno mai essere mantenute: "L’unico risultato di tutto ciò sarà un formidabile aumento del debito pubblico".
Basta, per svegliare la Thailandia dal suo sogno? No, non basta. Così come non turbano i sonni di nessu¬no le domande che l’opposizione ripete dai (pochi) banchi del Parlamento che le sono rimasti, denunciando una catena di conflitti d’interesse.
Quello tra il Thaksin che deve privatizzare le telecomunicazioni e il Thaksin che nelle telecomunicazioni ha un impero, per esempio. O quello tra il Thaksin che ripiana i crediti delle banche e il Thaksin che controlla (attraverso la moglie) il 5 per cento della Thai Military Bank, la principale banca privata interessata al problema.
O ancora quello tra Sanoh Thienthong, il capo dei consiglieri di Thaksin che si batte per l’aumento a 30 tonnellate dei limiti di carico per i Tir, e il Sanoh che è proprietario di una grande compagnia di trasporti. Solo professori come Ukrist Pathmanand, dell’Institute of Asian Studies di Bangkok, sottolineano nel silenzio quasi generale che "è la prima volta che un gruppo di capitalisti forma il suo partito, facendone il suo braccio politico e intervenendo direttamente nella lotta per i monopoli, le licenze edilizie, le concessioni, i permessi e gli appalti".
In un paese che deve pensare a uscire in fretta dal vicolo cieco in cui s’è cacciato, in una nazione che ha conosciuto 17 golpe in 70 anni, queste sembrano elucubrazioni da sofista. Nessuno ha voglia di sentirsi dire che la favola non avrà un lieto fine.
Tutti i thailandesi che gli hanno firmato una cambiale in bianco sanno che i loro sogni vivranno solo finché continuerà a sognarli anche "doctor Thaksin". Sempre che un giorno o l’altro quel maledetto tictac non faccia suonare la sveglia.
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