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REPUBBLICA - 16 Mar 2001
UNA POLITICA DI CARTAPESTA -
di CURZIO MALTESE

DA DOVE ha preso Silvio Berlusconi i primi miliardi?
Perché ha ospitato a casa sua per un anno e mezzo un boss mafioso, Vittorio Mangano, poi condannato a due ergastoli per traffico di droga e omicidio?
Perché l'ultima intervista rilasciata da Paolo Borsellino, un documento straordinario, dove si parlava anche di Berlusconi, Dell'Utri e Mangano, è sparita per anni negli archivi Rai?
E' vero che Craxi ha battezzato la nascita di Forza Italia?
Perché il governo Berlusconi ha concesso con la legge Tremonti uno sconto fiscale di 243 miliardi alla Fininvest?
Sono alcune domande rivolte da Daniele Luttazzi a Marco Travaglio, giornalista di Repubblica e autore di un libro su Silvio Berlusconi, "L'odore dei soldi".
Sono domande lecite? Sì. E' diritto dei cittadini chiedere conto a un candidato premier di tutte le sue azioni, presenti e passate.
 
I fatti citati non sono illazioni o teoremi, ma atti pubblici. Per atti e fatti assai meno gravi, Bill Clinton è stato torchiato per mesi dai giudici e dai media e ha dovuto rendere conto in mondovisione dei suoi rapporti con Monica Lewinski, nel dettaglio ("Ha provato orgasmi?"). E così hanno fatto Helmuth Kohl, Gonzales, Mitterrand e decine di leader, di governo o d'opposizione, per scandali veri o presunti, anche in piena campagna elettorale, uscendone con onore oppure con la carriera stroncata dal giudizio morale e politico dell'opinione pubblica. Non della magistratura, attenzione, ma dell'opinione pubblica.
 
Sono domande nuove? No. Da anni il giornalismo indipendente italiano, a imitazione del celebrato modello anglosassone, le rivolge a Berlusconi, il quale si guarda bene dal rispondere, se non con vaghi accenni al comunismo. Lo stesso Travaglio ammette di "non aver scoperto nulla di nuovo" ma soltanto "ordinato documenti noti". Infatti non era neppure stato querelato, come del resto gli autori di altre e più sconvolgenti biografie "non autorizzate", per esempio "Il Venditore" di Peppino Fiori o "Il caso Berlusconi" di RuggeriGuarino, sparite d'incanto dalle librerie. In qualunque altra democrazia un leader accusato di comportamenti moralmente gravi, anche se non tutti penalmente rilevanti o provati, avrebbe già risposto nelle sedi e nei modi opportuni, aule parlamentari e non giudiziarie, dibattiti pubblici e televisivi.
 
Ma nell'Italia del caso Berlusconi le cose sono andate in un altro modo. Il diretto interessato e la sua parte politica hanno sempre evitato di entrare nel merito. L'intero sistema politico italiano, avversari compresi, ha accettato nei fatti la presunzione di Berlusconi di non poter essere giudicato secondo i criteri e le norme validi per gli altri leader della terra. Rispetto ai quali infatti si proclama "superiore". Gli stessi capi del centrosinistra hanno sepolto da tempo temi come l'origine delle fortune del padrone di Mediaset o il conflitto d'interessi. Nel timore, solo italiano, di "demonizzare" l'avversario. Oppure nel terrore più concreto di farsi demonizzare da un impero di tv e giornali capaci, all'occorrenza, come testimoniano stavolta sì decine di sentenze di tribunale (favorevoli ai vari Caselli, Borrelli, Di Pietro, Colombo...) di scagliare violente campagne denigratorie e diffamatorie. Oltre ai politici, neppure agli intervistatori occasionali del Cavaliere, in centinaia di trionfali apparizioni sulle reti Rai o Mediaset, da Vespa o da Costanzo o nelle interminabili prediche notturne ai suoi telegiornali, è mai venuto in mente di fare una sola di "quelle" domande. Un caso, certo.
 
Finché un giorno, nel caos della Rai, nel rompete le righe preelettorale, l'embargo è saltato. Le domande pericolose lasciate cadere dai politici e dai giornalisti, rimosse e non fatte, sono finite nelle mani di una satira che le ha fatte esplodere tutte insieme. In campagna elettorale, per mezz'ora di fila, senza contraddittorio, con le risposte di un giornalista che condivide col suo maestro Montanelli una profonda disistima "da destra perbene" nei confronti dell'Unto.
 
Allora scoppia lo scandalo. Se lo dice la televisione, scoppia lo scandalo. Perché la televisione è "il" luogo della politica, e questa vicenda lo conferma. Se le domande fossero rimaste sulle pagine di libri e giornali o nelle aule dei tribunali, oggi saremmo qui a parlar d'altro, come sempre. Berlusconi non avrebbe minacciato querele, i suoi media non avrebbero ricominciato i pestaggi, il Polo non sarebbe insorto, l'Ulivo non si sarebbe ricordato degli strani stallieri di Arcore. Ma l'ha detto la televisione. E tutti, perfino Berlusconi, inventore della tele politica, s'indignano. Non per il fatto, si capisce, è l'immagine che conta.
 
In questa politica di cartapesta, basta un colpo basso di un satirista per scompaginare la campagna elettorale ed evocare reazioni spaventose. Alcune francamente da repubblica delle banane. La richiesta di censura del programma, la pretesa di esonerare Zaccaria come fosse Zaccheroni e la decisione di ritirare la squadra del Polo dalle tribune politiche Rai come fosse il Milan a Marsiglia, sono cose fuori dal mondo. Un politico democratico avrebbe a questo punto accelerato il duello tv con Rutelli, per rendere più trasparente la campagna elettorale e ricondurla ai binari di un confronto civile. Berlusconi al contrario usa il caso Satyricon come definitivo alibi per fuggire la prova. Ma se scappa, avrà la sua convenienza.
 
In fondo alla grottesca storia, c'è solo un particolare che fa davvero male. Quell'intervista a Borsellino nascosta per mesi dalla Rai e infine sdoganata nottetempo sul satellite, per pochi insonni. La Rai si vergogni e ripari subito. Un paese che censura le ultime parole di un eroe della giustizia, di un uomo che ha dato la vita per difenderlo dalla mafia, è un paese di cui avere appunto vergogna. E paura.

 
 

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