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REPUBBLICA - 15 Mar 2001
AUTOGOL E POLITICA -
di CLAUDIO RINALDI
SETTE anni fa, mentre si batteva contro Luigi Spaventa per un seggio di deputato a Roma, Silvio Berlusconi usò brutalmente i successi del Milan di allora per ridicolizzare l'avversario: "Spaventa prima vinca qualche coppa!". Nei giorni scorsi, dettando alla Mondadori la scheda autobiografica per il suo ultimo libro, "Discorsi per la democrazia", il cavaliere ha dedicato ben 5 righe su 36 a quella fortunata stagione:
"È presidente dal 1986 della squadra di calcio Milan A.C., che sotto la sua gestione ha vinto cinque campionati, tre coppe dei campioni, due coppe del mondo e numerosi trofei internazionali...".
Da buon populista, il capo di Forza Italia è convinto che i trionfi sportivi siano la componente essenziale della sua popolarità. Per questo ora si ribella al declino della vincibile armata rossonera. Ma il modo in cui martedì sera ha reagito all'eliminazione del Milan dalla Champions League dimostra che un rapporto così viscerale con il calcio può portarlo a clamorosi autogol anche sul terreno politico. Con l'ingenerosa condanna dell'allenatore Alberto Zaccheroni, infatti, Berlusconi ha finito in realtà per bocciare se stesso. Come imprenditore, ma anche come possibile uomo di governo.
La prima cosa che balza agli occhi è la sua furbesca tendenza a scaricare sui collaboratori tutto il peso dei fallimenti. Quando il Milan primeggiava, l'artefice delle vittorie era lui; adesso che i risultati mancano, lui non c'entra. È l'esatto contrario del comportamento di un leader, che deve assumersi ogni responsabilità sia nella buona sia nella cattiva sorte. Anche ammesso che Zaccheroni e l'amministratore delegato Adriano Galliani abbiano sbagliato tutto, resta il fatto che è stato Berlusconi a sceglierli. Sarebbe assurdo che Massimo Moratti si dichiarasse non colpevole della crisi dell'Inter.
Un altro aspetto messo a nudo dalla débâcle di martedì è la disinvoltura di Berlusconi nel dire le bugie. Nessuno può seriamente credere che il presidentepadrone sia stato estraneo alle scelte tecniche compiute dal Milan negli ultimi due anni. Egli ama mettere bocca e mano dappertutto, anche in ciò che non lo riguarda e non è pensabile che abbia investito decine e decine di miliardi nell'acquisto di giocatori che non gli piacevano.
C'è poi la buffa presunzione di essere, nel calcio come negli affari o in politica, l'unico con la verità in tasca. Quando, subito dopo il fiasco con il Deportivo La Coruña, il cavaliere ha sentenziato che sul Milan aveva ragione lui, le sue parole sono state la tragicomica continuazione di quelle proferite il 7 marzo a proposito delle diffuse perplessità su un suo eventuale governo: "Non c'è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me". E tanto più la presunzione di Berlusconi appare eccessiva quanto più si considera che la crisi del Milan è cominciata ben prima dell'avvento di Zaccheroni, il quale ha semmai il merito di aver vinto nel 1999 uno scudetto insperato. È cominciata con la chiamata in panchina di Oscar Tabarez, nel 1996, ed è continuata con gli infelici ritorni di Arrigo Sacchi e Fabio Capello, quando Berlusconi ancora si vantava di essere vicino alla squadra tutti i giorni. Che poi l'asserita competenza calcistica del cavaliere esista davvero, è assai dubbio. Almeno per chi ricorda la sprezzante superficialità con cui l'uomo di Arcore, l'estate scorsa, ha dato del dilettante a Dino Zoff, reo con la nazionale di essersi fatto raggiungere dalla Francia a 30 secondi dal termine in una finale europea egregiamente giocata.
Ma la lezione da meditare, per gli italiani che guardano le partite e anche per quelli si spera altrettanto numerosi che si interrogano sui destini della patria, è soprattutto un'altra. È che Berlusconi, benché si impanchi a "imprenditore d'Italia" e proprio su questa autodefinizione basi le sue ambizioni politiche, non sempre si rivela l'infallibile capitano d'industria che dice di essere. La sua sconfessione di Zaccheroni e di Galliani, infatti, è arrivata tardi e male. Tardi perché egli ha sostenuto di non aver condiviso le loro scelte per due lunghi anni; male perché ha aggiunto di aver aspettato tanto al solo scopo di non irritare i tifosi e i giornalisti, che difendevano l'allenatore. Ebbene, un imprenditore che per due anni lascia in mani che egli stesso considera maldestre l'azienda che dovrebbe essere il suo fiore all'occhiello, e per di più ammette di averlo fatto per compiacere la piazza, è un imprenditore mediocre. Se il timoniere rischia di portare la nave sugli scogli, il comandante ha non il diritto ma il dovere di sostituirlo prima che sia troppo tardi. Se non lo fa, la nave si sfracella. E a quel punto è un'atroce beffa, per i passeggeri che affondano, apprendere che il comandante zitto zitto da tempo brigava per mettersi in salvo.
È troppo sperare che il nostro paese non faccia la fine del Milan?
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