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  CORSERA - 11 Mag 2001
MICROFONI SPENTI E ADDIO ALLE ARMI

di INDRO MONTANELLI

Riflessioni dell’ultimo giorno di campagna
 
"Lasciamo stare il caso-limite del Cavaliere, firmatario di un contratto che nemmeno Rousseau avrebbe osato proporre, che si è sottratto al confronto col suo omologo della coalizione avversa dichiarandosi pronto a misurarsi con un altro da lui indicato come parigrado in fatto di autorità e di prestigio."
 
Ci sia permessa, a chiusura di questa campagna elettorale - che i quattro quinti, per non dire i nove decimi degl’italiani saluteranno con sollievo (la chiusura, non la campagna) - una notazione che a qualcuno potrà sembrare sofisticata, ma che a noi appare invece sostanziale. Essa non riguarda ciò che è stato detto, e nemmeno ciò che è stato taciuto, e che è molto più di quanto è stato detto specie in fatto d’idee e di programmi. Ma il modo in cui lo si è fatto. In tutto il mondo le campagne elettorali sono cariche di smog propagandistico. Ma di solito nei Paesi civili come i nostri d’Europa esso è corretto da qualche riguardo cavalleresco che ne riduce il tasso, o almeno il fetore. Sarà convenzionale, ma il cosiddetto "onore delle armi" nessuno lo nega al proprio avversario anche dopo l’attacco più risoluto alle sue posizioni. Da noi è dovuto intervenire a più riprese il capo dello Stato per richiamare i contendenti all’osservanza della regola ch’essi, all’unisono, s’impegnavano a osservare, e che poi tradivano fin dalle prime battute, ciascuno dandone colpa all’avversario in un infittirsi di reciproche contumelie. Entrambi gli schieramenti hanno dimostrato, specie in televisione, la loro allergia al dialogo e alle sue regole. Lasciamo stare il caso-limite del Cavaliere, firmatario di un contratto che nemmeno Rousseau avrebbe osato proporre, che si è sottratto al confronto col suo omologo della coalizione avversa dichiarandosi pronto a misurarsi con un altro da lui indicato come parigrado in fatto di autorità e di prestigio. Come "onore delle armi", ve lo raccomando. Ma là dove il dialogo c’è stato, credo che i telespettatori abbiano in larga maggioranza rimpianto che ci fosse, tanto diventava assordante, volgare e confuso.
 
Non sono caratteri che risaltano solo nelle campagne elettorali, anche se queste li rendono più evidenti e smaccati. Tutti i pubblici confronti italiani, ma specie - s’intende - quelli che si svolgono davanti alle macchine da ripresa e ai microfoni della televisione - questa palestra e cassa di risonanza di tutti i malcostumi nazionali - finiscono in sgangherati vocìi, in cui ciò che conta (e vince) non sono gli argomenti e le ragioni, ma i decibel e la forza di fiato con cui l’intervenuto, specie se di seconda o terza fila, riesce a tenere il suo "a solo".
 
Perché questo vogliamo noi italiani: non il dialogo, ma l’"a solo". Per incapacità di udire. E a chi si trova in mano il microfono, non c’è barba di presentatore che riesca a strapparglielo. Forse in questa campagna elettorale sono state dette anche delle cose che sarebbe valso la pena ascoltare. Ma chi riusciva ad afferrarle in mezzo a quei clangori di bùccine? Purtroppo le persone ragionevoli si portano addosso una maledizione: la debolezza delle corde vocali. Parla a bassa voce, la ragione: ed è questo che la rende, in Italia, così straniera.
 
Non vorrei dare a queste parole un’intonazione di predica. Abbiamo dovuto subirne tante, in queste ultime settimane, che solo una lunga pausa di silenzio può compensarcene. Ma sono convinto che là dove non c’è dialogo, cioè la disposizione di ognuno ad ascoltare le ragioni dell’"altro", non ci può essere democrazia. E mi chiedo se la vera riforma della televisione, se vuole davvero assolvere i compiti di un servizio pubblico, non dovrebb’essere proprio questa: insegnare agli utenti non soltanto a parlare, ma anche ad ascoltare. Ma chi ascolterebbe una simile proposta?

 
 

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