Corriere della Sera del 18-03-2001

Allarme del magistrato sulla lotta a Cosa Nostra: con le nuove regole, a parità di condizioni, è meglio fare l’imputato

"Se fossi un mafioso non mi pentirei"

Il procuratore di Palermo Grasso: legge cambiata, ora non conviene più collaborare con lo Stato

DAL NOSTRO INVIATO

PALERMO - Che la legge sui pentiti e quella sul "giusto processo" non piacessero a tanti magistrati si sapeva. Ma, dopo settimane di riflessione e a camere chiuse, il procuratore di Palermo Piero Grasso pronuncia la sua "condanna" con parole che più dure non potrebbero risultare. E, pur con un paradosso, dice in sostanza che se lui fosse un mafioso non si pentirebbe: "Viste le nuove regole, se fosse per me, io non collaborerei mai con la giustizia. Con questo chiaro di luna, a parità di condizioni, è meglio fare l’imputato".
La bomba esplode a un convegno di Magistratura democratica, quando Grasso conclude il dibattito organizzato dalla corrente più vicina alla Sinistra. Il tono generale ondeggia fra la delusione e la critica per quanto hanno fatto negli ultimi tempi governo e Parlamento.
Grasso non dimentica gli "aspetti positivi di leggi che hanno razionalizzato alcune materie", ma anche fuori dal convegno ribadisce l’amarezza.
Conferma signor procuratore?
"Non sono "pentito"".
La legge sui pentiti non è nata in una commissione composta anche da lei e dal procuratore nazionale Vigna?
"Quel testo è stato cambiato. Va bene razionalizzare, diminuire il numero dei collaboratori, aumentarne la qualità, staccare benefici e protezione, ma ormai il pentito deve dire tutto e dare tutto, anche in termini fiscali, entrando in una "gabbia sterilizzata", edizione riveduta e corretta del "41 bis", senza contatti e colloqui".
La variazione più grave quale sarebbe?
"Il termine di sei mesi imposto per raccontare tutto. Lo avevamo previsto anche noi, ma per i cosiddetti "fatti indimenticabili", secondo una immagine coniata da Vigna. Per esempio, una strage. Un mafioso non può dimenticare di avere fatto una strage. E deve dirlo subito. Ma se un pentito ha commesso cento delitti e di uno si ricorda dopo i 6 mesi rischia di perdere il programma di protezione e di essere bollato come "inattendibile"".
Che cosa potrebbe accadere?
"Avuta la notizia criminis, dopo quei sei mesi, noi magistrati dovremmo punire il collaboratore senza nemmeno svolgere indagini sul delitto, dimenticando il principio della obbligatorietà dell’azione penale...".
Dobbiamo definirla una legge contro i pentiti?
"Certamente, non è una legge incentivante. Il collaboratore non può comunicare e rischia pure una riforma in peggio della sentenza emessa a suo carico. Cosa che non accade nemmeno per i capi di Cosa Nostra".
Lei è anche deluso dal "giusto processo"?
"Prima di dare l’aggettivazione "giusto", vorrei sapere dov’è finito il processo. C’è ancora un processo? Che cos’è diventato? Alle garanzie del sistema inquisitorio, come i tre gradi di impugnazione, le motivazioni di tutti i provvedimenti o i termini di prescrizione molto stretti, si sono aggiunte le garanzie del sistema accusatorio puro, senza però prevedere i meccanismi correttivi di altri Stati democratici".
Che cosa manca?
"Fra l’altro, l’obbligo di dire la verità anche per chi depone contro se stesso. Negli Usa vige il "quinto emendamento", ma se parli devi dire la verità. E la verità risulta tutelata da sanzioni gravissime. In Italia questo coraggio manca. Processo giusto è quello che fa assolvere gli innocenti, ma soprattutto che fa condannare i colpevoli".

Felice Cavallaro