Corriere della sera del 06-05-2001

"Corrompere i giudici non era un reato"

Pecorella, legale di Berlusconi: nel modificare il codice dimenticarono per due anni una norma

MILANO - "Corrompere un giudice non è reato". O quantomeno "non rappresentava un fatto penalmente perseguibile tra il 1990 e il 1992", cioè nel periodo delle presunte tangenti che Silvio Berlusconi è accusato di aver versato, attraverso Cesare Previti, a due alti magistrati di Roma. Quando dalle udienze a porte chiuse del caso Mondadori sono cominciate a filtrare le prime indiscrezioni su questa nuova linea difensiva del leader di Forza Italia, più di un magistrato milanese ha sorriso pensando a uno scherzo: "Sembra una barzelletta di Luttazzi". Ma la tesi - esposta prima dai difensori di Previti e poi, con dotti riferimenti interpretativi, dal professor Gaetano Pecorella, il parlamentare di Forza Italia che guida il collegio di avvocati di Berlusconi - è tutt’altro che una boutade, perché si richiama a uno dei principi-base della civiltà giuridica: la "tassatività" delle norme penali. Ovvero la regola-cardine per cui non sono ammesse "estensioni" dei reati "per analogia": ciò che non è espressamente vietato, deve essere considerato lecito.
Il caso è stato sollevato davanti alla quinta corte d’appello, chiamata a esaminare il ricorso della Procura contro il proscioglimento di Berlusconi e Previti per la questione Mondadori. I pm di Mani Pulite puntano a rovesciare il verdetto del gup Rosario Lupo, che aveva bocciato l’inchiesta, ritenendo indimostrate le accuse rivolte al magistrato romano Vittorio Metta. Quest’ultimo, nel gennaio 1991, stese la sentenza che, ribaltando un precedente verdetto ("lodo arbitrale") favorevole a De Benedetti, assegnò al Cavaliere la grande casa editrice. Come presunta tangente, i pm Colombo e Boccassini individuarono un flusso di denaro, in Svizzera, dai presunti conti Fininvest a quelli di Previti e del collega Pacifico: in Italia sarebbero arrivati almeno 400 milioni, con cui il giudice Metta avrebbe comprato casa alla figlia. L’accusato ha però giustificato quei 400 milioni con l’eredità di un collega magistrato, convincendo il gup Lupo.
Ora tutte le difese chiedono alla corte, "in via principale", di bocciare di nuovo l’intera accusa. Ma "in subordine", cioè se fosse rovesciato il verdetto su Metta, la richiesta è di assolvere comunque Previti e Berlusconi. Per un problema di date: per le tangenti "normali", il codice punisce con due norme distinte il corrotto (articolo 319) e il corruttore (321). La "corruzione in atti giudiziari" fu prevista come reato più grave solo nell’aprile ’90, con una norma (319-ter) che punisce chi riceve le tangenti. Solo nel febbraio ’92 le stesse pene sono state estese epressamente anche a chi paga. Di qui la tesi dei difensori: tra il ’90 e il ’92 corrompere un giudice non era reato.
A questa soluzione si sono opposti con toni sdegnati sia il sostituto pg Pietro De Petris che l’avvocato di parte civile Giuliano Pisapia: per entrambi, la legge del ’92 era solo un’"intepretazione autentica" di un reato "comunque già applicabile" anche al corruttore. Il verdetto finale della cortre d’appello è previsto dopo le elezioni.

Paolo Biondani

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